Perché vogliamo essere ascoltati e perché, la maggior parte delle volte, accusiamo l’altro di non ascoltarci?
Una prima importante differenza è tra la capacità di sentire e quella di ascoltare:
sentire
è il verbo che si riferisce all’abilità dell’orecchio di catturare i suoni e che ci permette di comprendere cosa accade intorno a noi: parole, voci, suoni, ronzii, ecc. Questa competenza non richiede necessariamente la nostra attenzione, quindi è possibile sentire, senza necessariamente ricordare o prestare attenzione: ad esempio quando ci accorgiamo di suoni in lontananza, del rumore delle auto sotto casa, quando qualcuno ci parla e sentiamo qualcosa del tipo: “bla-bla-bla-bla”
In questa descrizione è contenuta già la differenza con l’ascoltare e cioè la variabile dell’attenzione.
Ora, questa competenza non è esclusivamente cognitiva, ma richiede proprio un’attitudine.
Le caratteristiche sono la qualità della presenza e quindi di esser-ci per l’altro interamente, con i sensi, con il pensiero e con l’accoglienza.
Se sintetizziamo il concetto in un’immagine è qualcuno che ha le braccia in apertura verso l’altro, cioè che permette all’altro di “entrare”, o meglio, che si rende disponibile ad accogliere l’altro, con tutto ciò che dice, sente, è.
Quando penso al mio lavoro, di psicoterapeuta, questa è la prima competenza che si sviluppa e si allena, e in parte, anche la più complessa.
Perché non è semplice ascoltare stando di fronte a qualcuno, senza mettere in mezzo le proprie idee, opinioni, e rimanendo anche in ascolto di ciò che sento di fronte all’altro che mi racconta di sè.
Infatti, sebbene nel mio lavoro utilizzi questa competenza come uno degli strumenti fondamentali, nella vita privata mi rendo conto che è meno spontaneo rimanere in ascolto: la difficoltà nasce nelle situazioni in cui sono coinvolta emotivamente, ad esempio in presenza di conflitti, in cui ho bisogno di esternare le mie ragioni, in cui entrano in gioco le mie aspettative (ad es. rispetto il comportamento dell’altro), quindi diventa complesso mettersi in una posizione di presenza, attesa ed accoglienza.
In queste occasioni, il bisogno è quello di potersi esprimere all’altro e - contemporaneamente - che l’interlocutore ci riconosca, ci capisca e ci accolga, il che non comporta necessariamente l’essere d’accordo, quanto più la possibilità che l’altro possa essere lì per noi
e non - ad esempio come può accadere - che pensi ad altro, inizi a parlare dei suoi problemi, ci fornisca la sua opinione, i suoi consigli oppure, quando va proprio male…ci dica che stiamo sbagliando!
A fronte di ciò, lo spazio della terapia diventa elettivo rispetto alla possibilità di sentire appagato il proprio bisogno di essere ascoltati, quindi accolti, senza che l’altro metta in mezzo le sue ragioni, o pensi ad altro, o abbia aspettative che inquinano in qualche modo la qualità della presenza, dell’essere lì-per-l’altro.
Lo spazio della terapia è il luogo in cui le sensazioni, i pensieri, l’immaginario del terapeuta diventano strumento del processo di ascolto e quindi restituiscono al paziente un’esperienza di accoglienza, di accettazione e di riconoscimento fondamentali per la propria autostima e percezione di sé.